L’opera di Sophie Ko Geografia temporale XXVII (2014) si presenta come un quadro – ne ha le dimensioni, è dotata di una cornice e di un vetro di protezione, sta appesa a una parete – ma nessuna immagine ne caratterizza e abita la superficie. O per lo meno questo è alla prima apparenza. A ben guardare, infatti, dopo qualche istante, in quel momento in cui l’occhio inizia a dedicarsi a una visione più sottile – come succede dopo un po’ che si è entrati in una stanza buia – ecco che ci appaiono, nitide e forti, delle tracce chiaramente leggibili. Ecco che quello che vediamo di fronte a noi, l’opera, non è un monocromo – un quadro dipinto uniformemente di un unico colore – ma una sorta di contenitore di una polvere sottile sottile, compressa dietro il vetro. Pigmento puro, scopriamo leggendo la didascalia che ci corre in soccorso. Questa polvere colorata non è poi così uniforme. È pura si, nel senso che si vede che lì non c’è altro che polvere. Ma la sua disposizione no, quella non è poi così compatta ed omogenea. Un monocromo, dunque – se con monocromo vogliamo intendere che presenta un solo colore – ma un monocromo animato da “accadimenti” importanti, accadimenti nei quali ci troviamo persi ma confortati da una certa piacevolezza che queste cadute, orografie, “geografie” per l’appunto, provoca in noi.

Questo quadro, dunque, è una “geografia”: un territorio in cui il nostro occhio è libero di scorrazzare felice; un Eden dove nutrire e pacificare il nostro senso della vista, messo continuamente a dura prova dalla quantità inverosimile di immagini che lo assalgono in ogni momento di ogni sua giornata. L’opera è dunque uno spazio. Come ogni spazio essa è sottoposta a numerose altre forze primarie che regolano l’andamento dell’Universo, quali la forza di gravità e il tempo. La gravità, per esempio, continua a esercitare la sua forza sulla materia di cui è fatto il quadro. Ogni tanto, dunque, un frammento di pigmento cade: si stacca dalla superficie dove era stato collocato dall’artista per finire altrove, lì dove il caso ha deciso che dovesse finire. Questo fenomeno porta dentro l’opera, inevitabilmente, anche la coordinata del tempo (reale e non rappresentato).

“Geografie” “temporali”.

Ed è in tal senso, dunque, che il quadro va interpretato come una cartina geografica in grado di adattarsi ai mutamenti del territorio che documenta senza dover essere ridisegnata ogni volta: un’orografia di pigmento in continua evoluzione, capace di narrare sé stessa e la sua storia trascorsa.