La flagranza dell'immagine

Serse

Battaglia di Ninive, 1984
matita su carta, cm 100 x 150.

Il lavoro condotto da Serse nel corso degli anni Ottanta si inquadra nell’orbita di quella sensibilità che ha inteso il ritorno agli strumenti della pittura secondo una cifra ossequiosa e riverente nei confronti della tradizione. Nature morte, sottoboschi, vedute paesistiche, scene di battaglia: sono questi i soggetti maggiormente frequentati dall’artista lungo il decennio. Ma la convenzionalità tematica è un aspetto che connota le sue tele e le sue carte solo in apparenza perché, al di sotto di un’abile quanto seducente perizia tecnica, Serse carica le sue immagini di densi riferimenti allusivi e metaforici.

Il ciclo delle nature morte sviluppato attorno al 1986 inscena di preferenza conchiglie disposte a gruppi o isolate: i contorni sfaldati da una materia pittorica che si sedimenta per lente e ripetute stesure e soprattutto il loro gigantismo le qualifica come oggetti ambigui e stranianti che pongono interrogativi. Un simile aspetto viene potenziato nelle coeve matite dove l’artista, con sottile vena ironica, non si priva dell’impiego di un repussoir di settecentesca memoria per costruire scenograficamente spazi scanditi da quinte naturali e di un segno avvolgente che conferisce agli stessi elementi marini una parvenza quasi viscerale. Caricate da un afflato neoromantico, espresso anche per drammatici contrasti chiaroscurali, le conchiglie si ibridano acquistando implicite allusioni sessuali o divenendo sorta di trofei o cornucopie che generano immagini biomorfe sospese tra il richiamo esotico e il feticcio tribale.

Il disegno, tecnica che già alla fine degli anni Ottanta diviene per Serse di esclusivo interesse, è stato impiegato anche per dar vita ad anacronistiche scene di battaglia dove si accumulano corpi ipertrofici secondo una mimica curiosa ed enfatica, talora difficile da motivare. Specialmente in simili opere, l’utilizzo di un segno filamentoso e nervosamente ripetuto, il ricorso a tematiche anche mitologiche – quando non apertamente visionarie – e di un affine corredo iconografico rivelano precise vicinanze all’arte di Savinio e del De Chirico degli anni Trenta. Non è un riferimento casuale. L’arte del Metafisico, in particolare, per quanti si cimentano con pennelli e matite in epoca di finis avanguerdiae incarna un preciso referente visivo e ideologico; per primo, infatti, in tempi di impetuose sperimentazioni espressive e tecniche, De Chirico si era fatto alfiere di un’arte dai tradizionali connotati appellandosi anche al Museo quale inesauribile fonte di ispirazione.

Fabio Belloni
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